Non è difficile immaginare un soliloquio di Manuela Armellani, giovane artista abruzzese, dinanzi ad una donna-modello per le sue tele, una donna che potrebbe poi avere connotazioni autobiografiche. Eccolo: ora, procedendo come in un rito liturgico, spinta da impellente urgenza interiore (non per nulla il grande Breton riteneva che ogni opera d’arte “dovrà riferirsi a un modello esclusivamente interiore”), procederò alla spoliazione di questo corpo perché esso appaia senza orpelli alla percezione visiva e ad un’eventuale morbida tattilità del fruitore dei miei elaborati pittorici e grafici. Il mio sguardo sospeso tra realtà e immaginazione nel mentre subisce il naturale fascino dello splendore anatomico che è pura forma musicale si prepara all’allestimento di un palcoscenico ove la protagonista sia sottoposta all’essenzialità formale. Ecco allora la voglia di proiettare sulla tela non il corpo femminile, ma l’architettura minimale di esso. Nel disegno germinante si concretizza la capacità di astrazione e al pari la teatralizzazione dell’energia degli arti trascritti con futuristico dinamismo. Mi rendo conto che, reso libero dall’incantamento fisico e dalla descrizione veristica, il corpo della donna, di questa mia donna, acquista una spazialità propria che devo definire attraverso la fisicità del nero che sappia orchestrare il plasticismo delle forme anatomiche e relazionarsi alle ondulazioni sinusoidali dell’io. Questa linfa di negritudine che scorre entro lo scheletro della mia musa voglio non spinga il suo corpo ad un processo platonico di verticalismo virtuale, ovvero di purità angelica; al contrario la sensualità, l’erotismo dovrà porsi come un sibilo penetrante e calorico nella composizione inneggiante il naufragio del perbenismo moralistico.
Nel mentre Armellani inscena questo soliloquio che dà ragione del suo operare artistico è come se fosse in preda a quello che Giordano Bruno indicava come “sacro furore”, il fuoco che acuisce la sua capacità di costruire posture scenografiche di rilevante impatto visivo ed emotivo.
Quanto stiamo dicendo riguarda l’intera produzione pittorica di Manuela Armellani, sebbene in questi ultimi tempi lei abbia realizzato opere ove campeggiano ricche seppur flebili melodie cromatiche. Ché anche in questo tipo di lavorazione più pittorica, l’artista non abiura l’energia del monocromo che offre un senso ricettivo di ordine filosofico e psicologico al suo fare arte.
La stessa declinazione passionaria affidata al registro proprio del segno nelle opere ove la gestualità espressionistica è evidente, continua a nutrire l’immaginario dell’autrice ove al disegno subentri il corredo pittorico e più propriamente l’adesione al tonalismo, sebbene sempre in chiave di predilezione monocromatica.
Ma andiamo per ordine intervenendo sui segmenti iconici, spaziali, estetici e ideali della sua parabola creativa.
L’immagine femminile non è tanto prioritaria nella pittura dell’artista Armellani, quanto dittatoriale (visitando il suo studio ho trovato solo un’opera raffigurante cavalli in dinamica corsa); un aggettivo poi è appropriato per definire la consistenza dei suoi nudi: diafano, nel significato etimologico di trasparente, riferibile ad una materia che lascia trasparire la luce. Sembrerebbe un controsenso ove ci si riferisca all’uso prevalente del nero, eppure trattandosi di semplici architetture minimali del corpo femminile abbiamo per analogia una sorta di schermo luminoso utilizzato per la lettura di lastre radiologiche. La struttura portante del corpo femminile si pone pertanto al servizio della luce, così come dello spazio che quasi diviene ondeggiante entro i segni anatomici andamentali. Segni vergati con sicurezza, mai lasciati al libero arbitrio o all’anarchia e neppure fagocitati dalla tentazione decorativa. Come dire “nella sintesi l’esplosione dei valori estetici”.Questi valori che la contemporaneità vive ed apprezza in modo assai iperbolico come dimostrano le effervescenze verbali e soprattutto iconografiche proposte/imposte dai mass-media e dalla cartellonistica pubblicitaria, ma che Manuela vuole a modo suo ricondurre in profondità con diramazioni esistenziali.
Dunque una donna quella a cui si ispira la brava artista abruzzese non da palcoscenico licenzioso come si trattasse di una versione illustrativa del mitico Moulin Rouge, bensì una figura appena descritta con sicura fluidità che offre ampi spirali alla luce, con spesso registrata sì la prorompente lussuria delle forme anatomiche, esplosiva in certi casi al grado massimo di erotismo, come quando alcune protagoniste reiterano il pudore dei nostri progenitori nel giardino dell’eden allorché dopo la fatale disobbedienza si accorsero della loro nudità e corsero ai ripari, comunque in grado di rivendicare il rispetto della propria dignità di essere raziocinante. Un vortice di libertà erotica assale la scena proprio quando queste sue modelle cercano di coprire con le mani le loro nudità. In quello stesso momento l’artista dà prova di come sia in grado di signoreggiare la materia erotica. Traducendo possiamo dire che l’amplificazione di uno spontaneo gesto morale innesta uno spiraglio da un lato sacrificale dell’eros, dall’altro apologetico dell’essere. La donna che da oggetto assurge a persona.
Spesso Manuela insiste su quest’accennata bivalenza come se una fiamma sacrificale fosse necessaria per rispondere agli enigmi insolubili del perché la donna sia stata nel passato sempre mortificata nella sua dignità.
Vogliamo dare un’ambientazione teatrale all’opera di questa artista? È come se la fisicità dei corpi talora descritti con eccedenze formali e la perentoria pulsione a realizzare una metamorfosi salvifica si affrontassero in un prolungato duello.
Non per nulla un attento studioso della sua pittura ha parlato, pur in un clima di manifesta sensualità, di una consistente dose di sogno, di mistero, di aspirazione repressa. Allora tutto l’apparato fisico, corporeo delle sue creature per il quale l’osservatore nutre ammirazione e prova stimoli è solo il video, l’aspetto fenomenico, superato il quale si fa strada un contesto esistenziale in grado di relegare al margine la volontà illustrativa e descrittiva dell’eros.
A suffragare una simile lettura troviamo da un lato il cupo cromatismo che imbrunisce in quella serie di opere tonali alla quale si faceva riferimento le atmosfere, dall’altro la quasi costante assenza dei lineamenti del volto che si avvicinano alle celebri anonime sagome ovoidali delle facce di De Chirico che sappiamo essere il protagonista sommo della Metafisica. (Un’opera di Armellani ha come titolo “Manichini”). E cos’è la metafisica se non la combustione rapida della fisicità e al contempo l’apologia di una dimensione “altra”?
Si apre qui la visualizzazione di uno spazio virtuale, termine inteso non come realtà simulata, ma nell’accezione latina (virtus=forza). Una forza interattiva persino con evocazioni epiche, mitologiche, come stanno ad indicare le denominazioni che Manuela dà ad alcuni suoi personaggi femminili, ovvero Muse, Nereidi, Furie, Menadi, donne queste ultime in preda alla frenesia estatica del dio Dioniso, consapevoli che questa fosse l’unica possibilità di accedere in un mondo ultraterreno.
Intuendo il futuro interessante svolgimento della sua ricerca pittorica, qualche anno fa ebbi a scrivere di Manuela Armellani in occasione d’una sua mostra omaggio tenutasi a Ripe San Ginesio (MC) in onore del grande scenografo due volte premio Oscar Dante Ferretti: “
La configurazione del segno nel suo tenero giuoco della formatività dell’icona acquista spessore e maestosità a riprova di un carattere energico, e perché no, forse ribelle dell’autrice, a tal punto che i personaggi femminili perdono ogni ordito di sentimentalismo romantico. Ecco, quando ci si accosta alla cosiddetta pittura al femminile, spesso ci si imbatte con esperienze crepuscolari, alla Sergio Corazzini o Guido Gozzano, per citare due classici esempi letterari a tutti noti. In Armellani, nulla di tutto questo: una fortezza regna sovrana nel suo linguaggio penetrante e tenebroso a guisa di abisso selvaggio ove sia dato immaginare l’incontro o meglio l’abbraccio tra eros e thanatos. C’è proprio in lei la coltivazione costante e muta delle due sfere, quella sensuale, erotica appunto sebbene sommamente controllata e quella fatale della morte che accarezza le morfologie espresse nelle opere.” Va ribadita questa scelta antiromantica, se così vogliamo chiamarla, tipica della ricerca artistica al femminile, grazie alla sua capacità conoscitiva ed espressiva della figura femminile in progetto di raccordo tra fisico e psichico. Ed ancora mi chiedevo:” La triade di Armellani? La donna, il tempo, l’io. La donna che soffre/s’offre; il tempo che impercettibile tutto ispessisce; l’io che prevedendo la caduta si spoglia del superfluo. L’artista sa bene di proporre al pubblico una pittura antigraziosa, monacale direi, e pertanto di intensa spiritualità. Il policromatismo avrebbe dato maggiore piacevolezza all’opera, però passato il primo giorno di trionfo percettivo e oltrepassati i luoghi del tripudio, come si sarebbe potuto dare voce alla pena che, se non m’inganno, l’Esistenzialismo ha ritenuto essere il sigillo di ogni individuo? Una ricerca, la sua, che induce a riflettere, quindi opere non da arredamento domestico che possono anche turbare per la loro problematicità che viene ulteriormente riproposta nelle stupende opere grafiche, nelle numerose acqueforti e acquetinte che a mio avviso si lasciano apprezzare per una incredibile padronanza tecnica ed una visione strutturale ed immaginativa encomiabile. Il segno scorre lesto e mai naufragando nell’anarchia diviene corale con altri neumi millimetrici sì da pervenire alla felicità creativa della scena sempre proiettata in un’atmosfera di rigore spirituale. Tale è il dominio tecnico, da riuscire con incanto estremo a dotare i personaggi raffigurati di levigata plasticità con una sorta di tonalismo monocromo in grado di esaltare la non casuale potenza della luce che accarezza doviziosamente i corpi.”
A proposito dei suoi lavori grafici, va ricordato che lei proviene dall’Accademia di Bologna, che vanta una tradizione straordinaria nel settore. Basti pensare a Giorgio Morandi, Pompilio Mandelli, Luciano De Vita e appunto il suo maestro Clemente Fava.
Che aggiungere in conclusione? In preda a seduzioni letterarie potremmo dire che la donna di Armellani dalla perfetta struttura somatica s’offre e parimenti soffre. Proprio nell’atto liturgico offertoriale è scolpito e reso visibile il dramma. Ed è questa l’unica chiave di lettura o metro interpretativo consequenziale dell’ostensione di corpi pensati e costruiti volutamente per compiacere quanti aspirano alla gioia di vivere. Una gioia di vivere che purtroppo non è dato riscontrare in quelle calotte ovoidali che quasi mai si strutturano in volti umani con relativa capacità allusiva alla persona.
Leo Strozzieri